Avevo sette anni quando mi innamorai del calcio, esattamente nella stessa maniera in cui  anni piu' in la'   mi sarei poi  innamorato delle donne: improvvisamente, inspiegabilmente, acriticamente, senza pensare allo sconvolgimento e alla disperazione che avrebbe portato con se'. Era l'anno dei mondiali,  quelli del 1982. Quelli della leggendaria nazionale di Enzo Bearzot. Quelli del presidente partigiano Pertini. Quelli di "Paolo Rossi era un ragazzo come noi".  Quelli di Italia-Brasile 3-2, la Partita.   Non era calcio, era la vita: il primo pallone tutto mio regalato da papa', le mie prime figurine Panini, le prime partite della nazionale viste a casa in famiglia,  nel bar dello sport,  nella popolare strada di casa su improvvisate televisioni.  Quei giorni raccolti come un fiore e fermati nell'ambra per sempre. Per sempre scugnizzi di strada,  per sempre sette anni,  per sempre campioni del mondo, per sempre tre gol al Brasile, per sempre famiglia. Quanta emozione, noi scugnizzi di strada a tirare calci ad un pallone tutto il giorno su polverose strade di periferia, con le scarpe rotte e le ginocchia sbucciate. Quel gioco eravamo noi, quando disegnavamo per terra  le linee immaginarie di un campo ideale  e perfino i pali della porta, larghi da un sasso all'altro e alti una misura immaginaria come immaginaria era la traversa.  Eravamo felici con poco e niente,  e non lo sapevamo.

"Un giornalista chiese alla teologa tedesca Dorothee Solle: Come spiegherebbe a un bambino che cosa e'  la felicita'? Non glielo spiegherei affatto, rispose. Gli darei un pallone per farlo giocare".  (Eduardo Galeno, splendori e miserie del gioco del calcio)